Intervista di Fabio Cherstich
Photografie di Robert Rieger
SuperWire di Formafantasma nasce da una sperimentazione fatta con il filamento LED che i designer hanno modificato e che grazie alla sua flessibilità e alla sua forma, hanno dato vita ad una collezione di lampade modulari che uniscono l’impronta industriale ai criteri di un design senza tempo.
Robert Rieger fotografa la collezione a Villa Crespi, dell’architetto Giuseppe De Finetti. La famiglia di SuperWire include modelli da tavolo, sospensione e da terra ed è caratterizzata da forme esagonali realizzate con pannelli di vetro planare collegati attraverso elementi in alluminio, illuminati da una sottile striscia LED lunga un metro, piatta, morbida e flessibile; un'innovazione unica sviluppata appositamente da Flos per questo progetto.
Abbiamo chiesto al regista teatrale e d'opera Fabio Cherstich di incontrare Andrea Trimarchi e Simone Farresin di Formafantasma, per una conversazione che ha mappato il lavoro dello studio attraverso una lente culturale che ha esplorato la loro pratica dall'interno.
“Il rapporto che l’essere umano ha con la luce trascende la dimensione funzionale e si eleva a quella più emozionale.”
- Andrea Trimarchi
La versione floor di SuperWire mi ricorda un razzo. Voglio dare alla nostra conversazione l’arco che Georges Perec traccia nel suo libro "Specie di spazi", esplorando gli spazi dalla pagina bianca, al letto, alla scrivania, alla casa, alla città, allo Stato, fino alla terra vista dalle costellazioni. Mi immagino a cavallo della vostra lampada-missile, proiettato verso l'oceano del vostro lavoro, come Astolfo che vola verso la luna...
A.T.: SuperWire è decisamente un pò un razzo quindi mi sembra un’immagine di partenza azzeccata!
S.F.: È molto difficile tracciare i confini della nostra pratica. Parliamo sempre dei limiti della disciplina del design perché vogliamo essere radicati al loro interno, ma siamo interessati a spingere i limiti di quella disciplina, anche se non in modo programmatico. Lo facciamo seguendo l'attitudine che abbiamo costruito in questo tempo. Nel nostro caso la pagina esiste solo a livello metaforico, perché il nostro è un dialogo a due, non siamo mai di fronte al dilemma della pagina bianca. Se c'è un dialogo c'è sempre un inizio.
A.T.: Tutte le tematiche che tocchiamo con il nostro lavoro vengono dai nostri interessi. Per tornare al discorso dei confini, "design" può significare molte cose, e questo ci colloca in un limbo. Veniamo dal mondo del product design, ma gli interessi, le problematiche e le urgenze di vent’anni fa sono completamente diverse rispetto a quelle del contemporaneo: il design è sempre sta- to un promotore della contemporaneità. E se nel dopoguerra l'idea era quella di creare oggetti che potessero essere utili, nel contemporaneo probabilmente l'utilità non è una priorità.
E nel caso di SuperWire, da quale scambio o dialogo è nata la lampada e come Flos ha assecondato questa vostra follia tecnologica dal sapore art-decò che poi si è tradotta in una lampada così complessa?
SF: Quando abbiamo visto questo filamento flessibile lungo 30 centimetri, abbiamo detto da subito che lo avremmo voluto usare per un progetto e siamo quindi partiti dalla tecnologia.
AT: Di solito questi filamenti erano lunghi cinque, sei centimetri; sussessivamente avevamo trovato quelli da 30 centimetri, però la tecnologia non era così avanzata per poter arrivare a un filamento molto lungo, che poi è stato sviluppato con il dipartimento R&D in Flos.
SF: La lampada riprende temi che avevamo già esplorato molti anni prima con un progetto, che si chiamava Ore Streams, sull'industria dell'elettronica e sulla mancanza di riparabilità. Poichè il tema è molto importante per noi e per Flos, SuperWire è stata prgettata per essere completamente disassemblata, inclusa la fonte luminosa LED, sviluppata appositamente da R&D per essere sostituita autonomamente dall’utente.
I vostri progetti nascono dalle parole e dal dialogo costante tra voi e il team. Questo è veramente inaspettato per me... un lavoro in studio fatto di flussi di parole e dialoghi più che di segni grafici.
SF: Sì, e di editing. Nel tempo questo nome che abbiamo scelto all'inizio del nostro percorso, Formafantasma, sta diventando sempre più radicato nel nostro processo e ne stiamo usando le possibilità ma anche i suoi limiti. Inseguiamo le idee e questo comporta che a volte andiamo a finire in territori che non ci competono.
AT: Possiamo entrare in discussione con chiunque, i nostri progetti parlano con gli antropologi o con gli scienziati. Quello che cambia è il modo in cui operiamo, la posizione che prendiamo all'interno di un progetto. Sono state pochissime le volte in cui siamo andati oltre al nostro ruolo di designer o di progettista, e quelle volte abbiamo capito che dovevamo rientrare nei nostri limiti.
Com'è la terra vista da fuori, da Formafantasma che galoppano sulla loro SuperWire?
SF: Abbiamo una percezione della Terra come un pianeta completo e finito. Da designer, siamo consapevoli della complessità globale delle infrastrutture, della progettazione e della produzione; questa consapevolezza ci dà la vertigine della responsabilità. Il mondo non è solo il pianeta in cui viviamo, ma anche come lo trasformiamo e lo riassembliamo. Non esiste un'unica immagine del pianeta; vivere come umani sulla Terra significa costantemente creare mondi. Possiamo costruire questi mondi in collaborazione con altre specie o in solitudine, ma in solitudine rischiamo di creare pianeti desertici.